Il testamento spirituale di Giovanni Parisi al figlio Carlos

Giovanni Parisi ha disputato l’ultimo incontro l’8 ottobre 2006 al Palalido di Milano. In palio l’europeo welter, una categoria non sua, che già lo aveva respinto nel 2000, quando tentò il mondiale WBO sul ring di Reggio Calabria, battuto da un signor campione come il portoricano Daniel Santos.

Giovanni accettò il verdetto e parve deciso ad appendere i guantoni al classico chiodo. Resiste fino al febbraio del 2003, tra inviti e serate a bordo ring. Il ruolo di ospite d’onore lo infastidisce, il ring per Giovanni è il campo di battaglia, non la passerella, il palcoscenico dei ricordi.

Col fedele Salvatore Cherchi all’angolo e Andrea Locatelli al fianco, Livio Lucarno e il professore Ireneo Sturla nello staff ideale dei fedelissimi, affronta lo spagnolo Miguel Angel Pena, test più che dignitoso, lo batte in quel di Bormio in una serata che si tramuterà in una notte infinita per l’intoppo ad Antonio Perugino, finito per fortuna senza danni.

Pausa lunga di riflessione, torna a combattere nel 2005 a Milano, supera il mestierante francese Louis Mimoune, si ferma una stagione e nel maggio 2006, toccata e fuga a Praga, il tempo per giocare al gatto col topo, contro il tenero Lubomir Wejs, messo a cuccia in quattro round.

Il profumo dell’europeo sembra il trampolino di lancio per l’ennesima avventura impossibile. Circolano nomi vari, c’è pure la prospettiva di un derby casalingo con Tony Lauri. Il varesino ci prova contro il veterano francese Frederic Klose, ma viene respinto.

Così nell’ottobre del 2006, sempre al Palalido, Parisi disputa il suo primo confronto europeo. La vetrina è perfetta, atmosfera di grande partecipazione, anche la preparazione sembra senza ombre. Il ring purtroppo racconta una storia diversa. Il tempo è giudice inappellabile e non bastano ore di allenamento e jogging a volontà.

La boxe è lucida rabbia, muscoli fluidi che ricevono il carburante da una pompa che ha additivi scanditi dalla volontà del cervello. Se perdi il ritmo, se non hai la cattiveria antica, tutto diventa più stemperato, lento e fragile. Klose è un veterano ma nell’occasione ha qualcosa in più. Non nel talento, ma nella forza interiore, i suoi colpi hanno traiettorie più brevi e rapide. Non di molto, ma basta per fare la differenza. Peccato.

In quell’occasione Giovanni volle che il figlio Carlos fosse a bordo ring ad assistere al match. Non fu l’apoteosi sognata, semmai il contrario. Nella feretra di Parisi erano rimaste poche frecce: l’orgoglio e la resistenza al dolore. Klose non faticò troppo a tenerlo a bada, anche se in fatto d’età non era certo un novellino. Fu una battaglia più malinconica che effervescente.

L’ombra del grande campione perse nettamente, pur dando dimostrazione di coraggio infinito. Il Parisi degli anni ruggenti era solo un ricordo. Qualche sprazzo dell’antico guerriero, poi la realtà crudele di chi ha chiesto troppo più che ai muscoli al cervello. La cattiveria di un tempo non ci poteva essere, il ragazzo si era fatto uomo e aveva raggiunto la tranquillità economica capace di addolcire anche uno spirito ribelle come lui. Era marito e padre di una famiglia additata ad esempio.

Dopo l’ultima battaglia, Giovanni inviò a Carlos attraverso “La Gazzetta dello Sport”, una lettera che oggi, a pochi giorni dalla sua immatura scomparsa, diventa il testamento spirituale di un campione al proprio figlio. Ma è anche un messaggio importante di un genitore a tutti i giovani, sperando siano migliaia i Carlos a leggerla, per capire e crescere nella giusta direzione.

MONDOBOXE ritiene che quella lettera sia un messaggio positivo di grande valore morale, da portare alla conoscenza dei suoi lettori.

La “Gazzetta dello Sport” del 12 ottobre 2006, riportava questa “Lettera a mio figlio che piangeva per me”, firmata Giovanni Parisi.

”Figlio mio, dopo l’ incontro di domenica che ti ha così profondamente turbato ho il dovere, da padre, di dirti alcune cose. Facevi un tifo forsennato e ti ho visto piangere. Per me. Fra un colpo e l’ altro ho sentito il tuo dolore. Era anche il mio e capisco chi ritiene sbagliato mostrare uno spettacolo così forte a un ragazzino di 8 anni, ma questo è vero in parte. Vorrei provare a spiegarti perché sono un pugile, ma anche un padre. Penso sia mio dovere cercare di trasmettere a te, figlio mio, una serie di valori che la vita e la professione che faccio mi hanno permesso di apprendere. Ho dinnanzi agli occhi mia madre, che in tempi non così lontani ha cresciuto me e i miei fratelli con dignità, anche nella povertà che abbiamo patito appena giunti a Voghera dalla Calabria. La ricordo fiera e sicura camminare a testa alta nonostante una crudele malattia. La ricordo orgogliosa per non aver mai ceduto a lusinghe e a meschini compromessi. La ricordo come solo un figlio può ricordare sua madre: farà sempre parte di me e non la potrò mai ringraziare abbastanza. Per fortuna e per qualche «piccolo» merito mio, tu Carlos hai e avrai un’ infanzia tranquilla, sia rispetto alla mia sia rispetto a quella di molti tuoi coetanei, senza alcun tipo di preoccupazione materiale, ma ritengo sia mio dovere far sì che gli agi e le possibilità a tua disposizione non vengano dati per scontati e che possano accompagnarsi ad altri valori. E qui vengo al punto. Dopo mia madre, la boxe ha completato la mia formazione. Devo molto al pugilato: è la mia passione più grande. Spesso mi sono chiesto se sia in credito o in debito con questo sport e non ho dubbi nel credere di essere fortemente in debito. E’ grazie ai pugni che ho appreso cosa sia la dedizione, la rinuncia, lo spirito di sacrificio per inseguire un traguardo o un obiettivo. Ho appreso l’ arte della pazienza nell’ attendere il momento opportuno. La capacità di portare rispetto senza odio anche a chi ti sta davanti solo per sconfiggerti, magari scorrettamente. Ho imparato a gestire la paura e le ansie. Ho conosciuto i miei demoni interni e li ho trasformarli in virtù. E’ in nome di tutto questo che sono stato felice di averti voluto a bordo ring e mi auguro che un giorno, qualunque professione voglia fare, tu possa trasmettere questi valori a chi ti sarà vicino, a cominciare dalla tua sorellina Angel . E sai perché ho voluto disputare questo ultimo match? Per due motivi, Carlos. Primo, la voglia di mettermi in discussione, di giocare a testa o croce con la mia immagine, con la mia sicurezza. Avevo voglia di sentire tendini e muscoli ormai stanchi riaccendersi pian piano, ritornare a rispondere alle sollecitazioni e ai sacrifici. Secondo, l’ ho fatto anche per il pugilato. Un atto di gratitudine verso lo sport che mi ha dato tanto. Ti confesso Carlos che a inizio carriera io mi sono sentito un suo figlio, uno dei tanti, magari solo più talentuoso e dotato; ora le parti si sono invertite, e come capirai quando sarai padre, non ho esitato ad aiutare il pugilato, a tendergli le mani (nonostante una delle due fosse infortunata) incurante dei commenti e delle critiche, sapendo che il rischio sarebbe stato altissimo. Ma per un figlio si fa questo e molto, molto di più. Ti voglio bene, figlio mio. Papà”.

Di una bellezza struggente. Non ci sono commenti, solo il ricordo e il rispetto per un papà che non c’è più, ma ha lasciato tracce eccezionali di umanità e saggezza, da rendere esemplare il percorso di una vita incancellabile, nei suoi trionfi e nelle sconfitte. Nelle riscosse, nelle debolezze e negli entusiasmi.

Per questo Giovanni Parisi è sempre vivo. Come i grandi campioni dello sport, di cui fa parte a pieno merito e tempo infinito.

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